#54: Il rischio di un clic: le sfilate stanno perdendo valore
Dopo le sfilate haute couture: Margiela sublime, Chanel allo sbando ancora per poco. Collezioni davvero rilevanti o solo utili per generare pubblicità?
Mentre la moda si trova in una centrifuga che non accenna a fermarsi — tra direttori creativi con la valigia sempre in mano e numeri che salgono e scendono nei grafici dei CEO — è sempre più evidente che ciò che sta dietro (o meglio, sotto) tutto questo, ovvero i capi di abbigliamento, sublimati e riassunti nelle infinite collezioni annuali, stia progressivamente perdendo di significato.
Le collezioni sono tante, troppe. Tra Autunno-Inverno, Primavera-Estate, Resort, Cruise e Haute Couture, viene spontaneo chiedersi che senso abbia — anche per il management dei brand stessi— spendere soldi ed energie per creare centinaia di capi che finiscono per assomigliarsi tutti, risultando sempre meno rilevanti.
È un modus operandi che, paradossalmente, sta svuotando di significato il messaggio dei brand e portando al burnout i direttori creativi — oltre che affaticare, seppur in modo diverso, anche il pubblico. Va detto: per quest’ultimo la vita è senz’altro più semplice. L’accessibilità allo scibile visivo nello spazio di un clic ha reso facile la consultazione, la partecipazione e il commento.
Gli utenti, costantemente bombardati da contenuti pre e post sfilata, sono esposti a un flusso continuo di stimoli che generano attenzione, o hype, come si preferisce dire oggi, alimentando una curiosità collettiva spesso superficiale. Soprattutto quando il calendario annuncia il ritorno di un nome altisonante o il makeover di un brand, tutti si precipitano a vedere il risultato. E quasi mai si soffermano sul processo.
Ma poi eccolo lì: ridotto a un reel di pochi secondi, o a un carosello di dieci immagini, il look più iconico o controverso della sfilata. I commenti si moltiplicano in un attimo, perché l’etere virtuale ci ha insegnato questo: ad assorbire un contenuto visivo in pochi secondi e a reagire d’impulso, con un like o un dislike. Eppure, per prendere una decisione nella vita vera ci vogliono giorni, a volte settimane. Ma no: quando si tratta di un look da passerella, il verdetto è immediato.
Non ci sarebbe nulla di male nell’esprimere un’opinione di pancia in uno spazio — quello online — che sembra immateriale, e quindi privo di conseguenze nel mondo reale. Se non fosse che quel singolo look è solo una minima parte di una grande entità, di un complesso sistema che meriterebbe di essere osservato, letto, studiato.
Perché ridurre una collezione a un solo look?
Spesso, per generare più engagement (e rispettare la tirannia del calendario editoriale), i profili social — soprattutto quelli dei fashion magazine — scelgono un unico ensemble che possa rappresentare l’intera collezione. Ma diciamocelo: è pressoché impossibile pensare che un solo outfit possa davvero restituire il pensiero, la visione e il lavoro di un designer e del suo team.
Le collezioni richiedono mesi per essere costruite. Ogni figura creativa si incastra con l’altra, in un processo di scambio continuo, dove l’energia e le idee si alimentano a vicenda. Il fine ultimo è far convergere queste visioni eterogenee in un’unica proposta, coerente con la storia del brand e solida agli occhi del pubblico e dei clienti.
“Basterebbe rallentare i ritmi”, dicono spesso gli addetti ai lavori.
“Servirebbe più qualità e meno quantità”, aggiungono gli esterni con buon senso. “Bisogna fatturare”, rispondono dai piani alti.
E così, il ciclo continua. Ma ogni tanto, qualcuno con un minimo di coraggio decide di staccarsi dal gregge per cercare di cambiare qualcosa dall’interno.
Demna Gvasalia, promesso sposo di Gucci, è uno di quei pochi capaci di prendersi un rischio. Alla fine della sfilata haute couture di Balenciaga — atto finale prima di consegnare, dopo un decennio, le chiavi della maison a Pierpaolo Piccioli — incalzato da Suzy Menkes, ha dichiarato che non parteciperà alle sfilate di settembre.
Tradotto: se nessuno lo fa, lo faccio io. Mi prendo la responsabilità di ricordare che la creatività richiede tempo. Non giorni, non settimane. Ma mesi. Almeno.
E peccato per i post già in canna dei magazine di moda, o per i giornalisti che stavano già impostando le bozze degli articoli per il debutto settembrino. Dovranno attendere fino “a marzo 2026” (più probabilmente fine febbraio a dire il vero), quando Demna si presenterà al mondo come nuovo direttore creativo di un brand in crisi, che ha bisogno di una ristrutturazione profonda. E soprattutto di coraggio.
E se il messaggio non fosse ancora chiaro, bastava leggere le show notes adagiate sulle sedute della sfilata:
La moda vive al limite del futuro, guidata non da ciò che sappiamo, ma dall'emozione di scoprire cosa verrà dopo. È l'espressione del nostro bisogno di evolverci, di cogliere il senso del cambiamento prima che arrivi, di vestire il futuro prima che abbia un nome.
Anche se qualcuno potrebbe leggere la decisione come un’astuta mossa di marketing — una pausa strategica concordata con Gucci, che a settembre presenterà comunque una selezione limitata di capi e accessori per introdurre i primi codici dell’universo Gucci-Demna e alimentare la desiderabilità — il direttore creativo georgiano ha ribadito quale sia il punto centrale:
«Mi serve tempo per appropriarmi dell’archivio.»
Di una cosa sono certa: il binomio brand-celeb funzionerà anche da Gucci. Demna è da sempre circondato da un entourage di star che lo sostengono fedelmente, sfilata dopo sfilata. In ordine sparso, per citarne solo alcune: Kim Kardashian nei panni di una moderna Elizabeth Taylor in La gatta sul tetto che scotta (1958), elevata dai veri diamanti della Taylor; Isabelle Huppert, con una borsa a braccio, pantaloni neri con corsetto e un dolcevita scolpito in perfetto stile haute couture; Eva Herzigova, in un abito bustier giallo neon con fianchi imbottiti.
E ultima, ma certo non per importante, la neo sposa del quinto uomo più ricco del mondo: Lauren Sánchez. Vi siete accorti che da quando Anna Wintour le ha dato la benedizione (prima al Met Gala, poi con la cover di Vogue US pre-matrimonio) è praticamente ovunque? Ma di questo scriverò in un’altra newsletter, perché c’è davvero tantissimo da dire.
Balenciaga by Demna: sensazionale l’idea di far pronunciare a ciascun lavoratore di Balenciaga il proprio nome. Spesso si parla solo dei direttori creativi, ma — come ribadito qui più volte — il lavoro è sempre il risultato di un grande team. Ed è bello che, come già accaduto con Piccioli o Chiuri, anche in questo caso ci sia stato un tributo da parte del designer in procinto di andarsene.
Per il resto, Demna si conferma ancora una volta consistent, come si dice spesso nei paesi anglosassoni. Ha sempre un’idea precisa, un progetto ben definito che possiede un inizio e una fine. Non si perde lungo il percorso — come capita a molti ultimamente — né lascia il pensiero in sospeso. Che siano controverse o rassicuranti, le sue collezioni risultano sempre rilevanti: sul piano concettuale oppure su quello tecnico.
I corsetti scolpiti, modellati, confezionati con apparente fluidità ribadiscono quell’approccio architettonico che ha cambiato la moda dell’ultimo decennio. Non solo: Demna ha introdotto una novità importante per la maison francese, lavorando sugli archetipi del guardaroba maschile — un territorio mai veramente esplorato da Balenciaga. Spazio dunque a bomber svasati, trench allungati, giubbotti in pelle da motociclista e completi sartoriali, realizzati seguendo i canoni di una sartoria napoletana.Chanel by team interno: la trepidante attesa che accompagna l’arrivo di Demna da Gucci potrebbe — e forse dovrebbe — valere anche per Matthieu Blazy da Chanel. Non tanto per mera curiosità, quanto per la concreta speranza di un intervento salvifico che risollevi la maison dalle sue ceneri, mettendo fine a questi mesi di languida incertezza.
La sensazione, a guardare l’ultima collezione haute couture, è che si sia volutamente toccato il fondo per predisporre il pubblico al debutto di Blazy: più basso si scende, più in alto si può (ri)salire.Il team interno ha scelto di puntare tutto su tweed immacolati e mantelle ricamate con piume, vagamente ispirati all’amore di Coco Chanel per le Highlands scozzesi. Il risultato? Nulla di nuovo. I 46 look sembravano esercizi dimostrativi per esaltare la bravura degli atelier tessili e di ricamo, ma nulla di più. Forse anche loro, orfani di una guida forte e riconoscibile, si aggirano per Rue Cambon sbattendo la testa da un muro dell’archivio all’altro, contando i giorni che mancano all’arrivo di Blazy. Magari, allora, smetteranno di sbadigliare. E noi con loro. Rivoluzione cercasi.
Martin Marginal by Glenn Martens: questa è la classica collezione che non si può liquidare con una semplice emoji su Instagram (tornando al discorso iniziale). Quando era stato annunciato Martens come nuovo direttore creativo di Margiela, il match sembrava perfetto: uno stilista coraggioso e visionario, profondamente radicato nella sperimentazione, per un brand sacro e intoccabile. Il debutto non ha fatto altro che confermare quelle sensazioni iniziali, congratulandosi indirettamente con Renzo Rosso e la sua OTB per la lungimiranza.
Chi altro, dopo Galliano e Margiela, avrebbe osato far sfilare un esercito mascherato in un seminterrato gotico? Tra carte da parati fiamminghe del XVII secolo, nature morte, piume di tulle e piatti di latta trasformati in maschere, Martens ha costruito una casa simbolica in bilico tra passato e futuro. Un manifesto di riciclo e poesia, che rilegge le fondamenta della maison con lucida intensità.
Mertens, fiammingo, cresciuto tra paesaggi austeri e interni freddi, porta con sé un’estetica spettrale e viscerale: abiti in jersey drappeggiati, mantelli, veli, corsetti dalla struttura deformata che sporgono sui fianchi e si sollevano a zig zag come architetture sepolcrali. Un chiaro omaggio a Galliano, ma filtrato attraverso una lente belga, rigorosa e inquieta.
Schiaparelli by Daniel Roseberry: peccato per quel look 26, capace da solo di oscurare il nobile tentativo di avvolgere la donna in tessuti più morbidi e meno costrittivi.
Eppure, la collezione — look con sella-corsetto a parte — ha regalato momenti di grande potenza visiva: effetti ottici ipnotici, tailleur sartoriali semitrasparenti, glamour anni Trenta e sublimi design scultorei.
Al netto di alcuni elementi no-sense — come i completi da matador o l’improvvisa irruzione di colori accesi in una collezione dichiaratamente in bianco e nero — l’heritage di Schiaparelli si respirava a ogni uscita. Dedicata al periodo parigino pre-bellico, quando Elsa stessa si affermò come regina della moda surrealista, la collezione è frutto di un’immersione profonda negli archivi e in un momento storico che, come ha sottolineato Roseberry, ha segnato non solo la maison ma l’intera Europa.
L’abito rosso in raso con corsetto — con finto busto e seni scolpiti sulla parte posteriore, indossato al contrario — farà parlare di sé a lungo.
Le cose messe al contrario sono ovunque nella moda di oggi, per ragioni che sembrano tutto fuorché casuali: in un mondo ribaltato, anche l’abito riflette lo smarrimento.
E allora forse è il caso di spegnere la lavatrice e terminare la centrifuga, ché nulla esce mai come dovrebbe.
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