#53: Fashion Beach Club: tra Sogno e Trappola
Quando l’esperienza diventa l’ultimo accessorio di uno status sempre più difficile da raggiungere.
Maioliche verde bottiglia, zig zag oceanici, righe a contrasto e dettagli sabbiosi: sono solo alcuni dei pattern che si incontrano nei pochi beach club esclusivi dove la moda ha deciso di sbarcare da qualche estate. Location prima semi-anonime, oggi trasformate in quinte narrative dal design riconoscibile, pettinate ad arte per accogliere un nuovo pubblico aspirazionale, pronto a farsi ambasciatore del brand.
Ma perché sono in aumento? Esiste una formula che funziona?
La risposta è sì, almeno per tre motivi. Innanzitutto, per i brand di lusso la presenza nei beach club è un’occasione per rafforzare il proprio immaginario, rendendolo tangibile e riconoscibile in ogni dettaglio: dal gelato brandizzato alla playlist del DJ set, dal colore degli ombrelloni al profumo degli asciugamani. Tutto contribuisce a costruire uno spazio esperienziale in cui il cliente si muove, si fotografa e, naturalmente, si fa protagonista.
Poi c’è il solito trucco ben riuscito dell’esclusività che sembra a portata di mano: da sempre la moda di lusso respinge e seduce allo stesso tempo. Il popolo, inteso come gente comune, è tenuto a distanza (ora dai prezzi e una volta dallo snobismo), ma attratto da estetiche sognanti e desiderabili. Così si regala un’illusione: se non può permettersi una borsa da 3.000 euro, forse almeno un lettino griffato sì.
Infine, c’è un tema più concreto ma fondamentale: la brand awareness. Dopo anni in cui la moda è stata travolta da scandali, giri di poltrone e prezzi sempre più distaccati dalla realtà, il sistema cerca nuove strade. E allora, sondate hotellerie e ristorazione, è il turno dell’hospitality. Anche perché i beach club, nella maggior parte dei casi, esistono già: per i brand si tratta solo di “vestirli”, di brandizzarli — un’operazione relativamente a basso costo, con un ritorno però enorme. Nessun cachet milionario da versare alla celebrity di turno: basta un allestimento ben studiato e il gioco è fatto.
Indipendentemente dal conto in banca, i profili social parleranno la stessa lingua: quella della moda, filtrata attraverso l’estetica dei social. Post, reel e tag accuratamente editati e inseriti…e la sponsorizzazione è servita.
Oltre la patina lucida e instagrammabile dei beach club griffati, c’è un nodo che non può passare inosservato: chi è il mittente di questi progetti estivi?
Se, come accennato, il cliente aspirazionale ha fatto la fortuna delle maison negli ultimi quindici anni, oggi la risposta — scortese, se non apertamente respingente — delle stesse maison sta producendo effetti disastrosi. Effetti che nemmeno i team di CEO plurilaureati e manager navigati sembravano aver previsto.
Di cosa stiamo parlando?
Del desiderio, innanzitutto. Da sempre i prodotti di moda, calzature e borse su tutti, esercitano un fascino magnetico soprattutto su chi non può permetterseli. L’avvento dei social ha amplificato ed esacerbato quel desiderio, trasformandolo in una spinta all’emulazione continua. Negli anni, l’hype verso prodotti realizzati artigianalmente, o semplicemente percepiti come status symbol, ha alimentato non solo la voglia di possesso, ma quella di appartenenza. Comprare una borsa da 2.000 euro non significava solo acquistarla: voleva dire entrare nel mondo del brand, condividerne i codici estetici, farne parte. Indossarla equivaleva a dire: “Io ci sono dentro”, “Io ne faccio parte”.
È così che il cliente aspirazionale ha plasmato il successo del lusso contemporaneo. Un consumatore disposto a risparmiare piccole, medie e poi (sempre più) grandi cifre per realizzare la propria wish list.
Sembrava perfettamente ragionevole sacrificarsi per una borsa di Gucci o una ciabattina di Hermès. Fino a pochi mesi fa.
Ma ora qualcosa è cambiato.
Anzi: il cliente aspirazionale — ovvero colui che ambisce a uno stile di vita che ancora non possiede del tutto, ma che cerca di avvicinare attraverso scelte strategiche e desideri ben ponderati — è stato costretto a cambiare focus.
E non per libera scelta.
Mi spiego meglio.
Quando, pochi mesi fa, i prezzi di borse e scarpe sono aumentati esponenzialmente, i clienti — oggi più informati, esigenti e consapevoli rispetto al passato — non hanno più fatto finta di niente.
Se fino a quel momento si tolleravano piccoli rincari ogni sei o dodici mesi, gli aumenti improvvisi del 15% - 20% hanno segnato un punto di rottura. molti hanno semplicemente deciso di uscire dal gioco: alcuni costretti, per motivi economici evidenti; altri per scelta consapevole, quasi politica.
Hanno così iniziato a virare verso il vintage, il second hand, o semplicemente verso un modo di acquistare più ragionato, magari sostenibile o Made in Italy, dove il prezzo almeno giustifica una qualità ancora reale, tangibile (tutti sappiamo che i prezzi del lusso aumentano, ma non la qualità delle materie prime che utilizza).
Ma perché vi ho detto tutto questo? Perché torna in ballo il discorso dei beach club.
Long story short: i lidi estivi ripensati da maison come Loro Piana e Dior sono la trappola perfetta (o meglio, l’esca raffinata) per il cliente aspirazionale.
Perché se borse e accessori sono ormai fuori portata, una giornata su un lettino dalle nuance polverose, sorseggiando un cocktail griffato e ascoltando una playlist curata ad hoc dalla maison resta ancora un’esperienza possibile. Un piccolo sogno da consumare, magari una tantum, ma comunque accessibile.
Il gelato di Louis Vuitton, in questo senso, parla chiaro. Creare un pop-up di gelatai in una location “cool” (termine che mi fa venire i brividi) come Forte dei Marmi (dove puoi finalmente assaggiare che sapore avrò la stracciatella di Louis Vuitton), non è un’operazione pensata per l’1% più ricco del pianeta (l’unico target che ormai conta per il sistema moda, ma che sta in barca e non nel beach club), ma per noi, gente comune, che con qualche piccolo — o grande — sacrificio, maturato in settimane e mesi, va in pellegrinaggio alla Mecca del lusso (in questo caso il carretto dei gelati LV).
È il caso di dire che oggi il lusso non si tocca (troppo caro), si assaggia. Oppure si percepisce nella morbidezza degli asciugamani, si annusa nel profumo degli oli solari, mandando avanti la cultura dell’entertainment “cool” (di nuovo), che va dall’hôtellerie alla ristorazione, fino all’hospitality. Tutto è attraente, instagrammabile, imperdibile. E così, più che partire per una vacanza, oggi si disegna un itinerario estetico. Dove la destinazione è il brand.
Non so voi, ma in un passato non troppo lontano si andava al mare scegliendo uno stabilimento alla mano. A volte era semplicemente il primo che si trovava, magari comodo, magari economico. Si cercava il parcheggio all’ombra, il lettino vicino alla passerella ma lontano dai giochi dei bambini, il cornetto maxi costava 2 euro e l’atmosfera era, nella sua semplicità, rilassata.
Bastava riposarsi, staccare dalle ansie di tutti i giorni o semplicemente dedicarsi ai propri hobby, come la lettura. Si andava al mare per stare — semplicemente e genuinamente — bene, con tutte le facility del caso.
Ora invece si cercano estetiche da fotografare. Anche perché, in un settore dove la qualità è spesso carente — tra servizi approssimativi, prezzi gonfiati e attenzioni a intermittenza — non si può pretendere molto altro.
Un asciugamano meraviglioso, un lettino confortevole, un ombrellone loggato o un gelato firmato bastano a costruire l’illusione del lusso.
Perché oggi non si compra l’oggetto, si consuma l’esperienza.
E così il brand è ovunque. Tranne che nella borsa.
Buona estate, in qualsiasi lido vi troviate.
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