#50: La borsa è piena (di marketing): il caso Chanel
La maison francese resiste, ma il lusso vacilla: e se l’equazione status = desiderio non reggesse più?
Per anni la moda ha preferito parlare il linguaggio dell’estetica anziché quello dei numeri. Ma l’equilibrio tra creatività e realtà economica si è spostato bruscamente. Oggi, tra fatturati da giustificare e proiezioni da soddisfare, anche il settore più immateriale del lusso si ritrova immerso in un crash course di economia applicata. E la consapevolezza di questa trasformazione sta riscrivendo le regole del gioco.
Da qualche anno, il prezzo delle borse — vero termometro del desiderio e dell’esclusività — ha registrato aumenti costanti, spesso giustificati con la retorica della qualità estrema e dell’artigianalità. La narrazione dominante? I clienti più facoltosi non si sarebbero lasciati intimorire da qualche cifra in più: mille euro in più o in meno sarebbero dettagli trascurabili per chi può permettersi tutto.
E anche quando marchi storici come Dior e Louis Vuitton hanno iniziato a mostrare segni di affaticamento, maison in buona salute come Chanel ed Hermès hanno continuato a puntare sulla leva del prezzo, convinte che una brand identity solida e un’aura di desiderabilità bastassero a sostenere la bag-inflation.
All’atto pratico, nel 2024:
Hermès ha aumentato il prezzo della Birkin 30 da 12.100 a 13.310 dollari.
Chanel, che prosegue con la strategia dichiarata dal 2019 di avvicinare i prezzi a quelli di Hermès, ha portato la borsa classica con patta da 10.200 a 10.800 dollari.
Un incremento che potrebbe sembrare marginale, se non fosse che, rispetto al 2019, la stessa borsa costava 5.800 dollari: un aumento dell’86% in cinque anni, pari a 5.000 dollari netti in più. Un’accelerazione che, più che posizionamento, somiglia sempre più a una corsa verso l’alto.
(Nota: i dati sono riportati in dollari in quanto la maggior parte delle fonti e analisi disponibili sul tema proviene da studi e ricerche anglosassoni.)
Potremmo certo credere che l’aumento dei prezzi sia una diretta conseguenza dell’inflazione globale: il rincaro delle materie prime, il caro energia, i dazi, la volatilità dei mercati, le guerre e le interruzioni alla filiera produttiva causate dal Covid. Ma la realtà è un po’ diversa.
Se da un lato, c’è chi — spinto dalla paura di futuri rincari — anticipa l’acquisto, trasformando la borsa in un “bene rifugio”. Dall’altro, cresce il numero di clienti disorientati, se non apertamente contrariati, dall’idea che lo stesso oggetto possa costare mille dollari in più da un giorno all’altro. A pesare non è solo l’entità dell’aumento, ma anche la sua frequenza e, soprattutto, l’opacità delle politiche di pricing. Gli aumenti avvengono spesso senza preavviso né spiegazioni, scoraggiando chi fino a ieri si sentiva parte di una community esclusiva, e oggi si ritrova di fronte a un lusso sempre più elitario e sfuggente.
Ma ecco che, tra un proclama e l’altro, arriva una notizia fresca fresca: i ricavi di Chanel nel 2024 sono scesi del 5,3% a tassi correnti (e del 4,3% a cambi costanti), mentre l’utile operativo ha subito un calo del 30%, fermandosi a 4,48 miliardi di dollari).
Anche i ricchi piangono, verrebbe da dire. Ma forse sarebbe meglio dire: anche i ricchi hanno gli occhi.
Questi numeri per Chanel non hanno certo i tratti del disastro — che ha anzi aperto 53 nuove boutique nel 2024 e ne prevede altre 48 nel 2025 — ma segnano comunque un cambio di passo nei comportamenti della clientela.
È come se la consapevolezza (e forse una certa insofferenza) da parte dei consumatori, anche di fascia alta, avesse preso forma.
Complice la viralità di infiniti contenuti social (come questo) il tema della qualità delle borse Chanel è stato messo più volte in discussione: cuciture storte, fili tirati, pelli meno pregiate rispetto a quelle usate nei primi Duemila. Ricordate il reel pubblicato da Women’s Wear Daily che mostrava come Chanel producesse le sue borse ma poi cancellato a causa dei commenti negativi che alludevano a un metodo scadente?
D’altronde gli acquirenti, o potenziali tali, hanno cominciato a scrutare gli accessori Chanel con un occhio nuovo, quasi clinico. Come se una serie di leggi non scritte dicesse: Volete raddoppiare il prezzo di una borsa fino a eguagliare quello di una Hermès (storicamente considerata un gradino sopra)? Allora ci si aspetta l’eccellenza assoluta. Pelle impeccabile, cuciture invisibili, hardware lucidati come gioielli. Nessuna sbavatura concessa.
Utilizziamo materie prime pregiate e la nostra produzione è molto rigorosa, laboriosa e artigianale, quindi aumentiamo i prezzi in base all'inflazione che vediamo.
Così parlava Leena Nair, CEO di Chanel, nell’aprile dello scorso anno, cercando di schermare il brand da critiche e lamentele, trincerandosi dietro l’argomento della qualità. Ma siamo davvero sicuri che tutto si riduca a questo? Può una qualità eccellente, che nessuno nega, giustificare un aumento dell’87% in cinque anni? La sensazione, condivisa da molti acquirenti, è che il prodotto sia sì di qualità, ma non più di quanto non lo fosse nel 2019. Semplicemente UGUALE.
Messaggi fuorvianti (ma ben confezionati)
Sempre Leena Nair ai microfoni di Vogue Business si è dichiarata soddisfatta della performance di Chanel nel 2024, affermando:
La performance di Chanel nel 2024 segue un periodo di crescita senza precedenti, in cui i ricavi sono quasi raddoppiati rispetto ai tre anni precedenti.
Una crescita legata a doppio filo con gli imponenti investimenti — senza dubbio redditizi — compiuti di recente. Chanel ha aumentato le sue spese in conto capitale del 43%, raggiungendo la cifra record di 1,76 miliardi di dollari nel 2024, e prevede di mantenere lo stesso livello di investimento anche nel 2025 (si parla di circa 600 milioni destinati a trasformare l’attività in modo “sostenibile”).
Tutto questo rientra nella più ampia strategia di espansione del marchio: nuove boutique, un ecosistema creativo potenziato, un’esperienza per il cliente sempre più immersiva. Ma anche, e soprattutto, un racconto ben oliato, fatto di parole chiave rassicuranti e trionfali: “crescita”, “successo”, “investimenti”, “sostenibilità”. Un lessico preciso e strategico che punta a consolidare l’aura del mondo Chanel, in cui tutto è bello, desiderabile e giustificabile.
Nel mezzo di questo racconto incantato, però, alcuni dettagli cruciali vengono (volontariamente?) minimizzati. Come quando Nair dichiara:
L'effetto medio sui prezzi che abbiamo avuto per la moda è stato del 3% lo scorso anno, il che sono sicuro che concorderete sul fatto che fosse perfettamente in linea con l'inflazione globale, se non inferiore.
Parole che sembrano voler suggerire un gesto quasi empatico e caritatevole nei confronti del consumatore. Peccato che dimentichino una realtà semplice: per la maggior parte delle persone, anche quelle benestanti, una borsa da 10.000 dollari resta un sogno. E non è certo diventata più accessibile.
Perché sebbene gli aumenti nel 2024 siano stati più contenuti rispetto agli anni precedenti, la bagflation, o aumento dei prezzi delle Chanel bags, è stata pari pari all’86% — più del triplo del tasso d’inflazione degli Stati Uniti e dell’Europa nello stesso periodo.
Intendiamo mantenere più o meno la stessa politica, ovvero monitorare i nostri prezzi in linea con l'inflazione globale nel 2025.
Una promessa rassicurante, certo. Ma dopo un rincaro di 5.000 dollari in cinque anni, forse è l’unica mossa possibile. E accettabile, visto il costo della vita sempre più insostenibile per molti — e la crescente lucidità, anche tra i clienti high-end, nel distinguere il valore reale da quello costruito a colpi di marketing e storytelling.
Chanel può dire che i prezzi aumentano per la qualità, le persone sveglie diranno che è per il marketing.
Se solo Chanel avesse usato prima l’arma della qualità
In attesa che Matthieu Blazy porti davvero una sferzata di freschezza a un brand che vive — benissimo — di borse e molto meno di prêt-à-porter (che, persino sui red carpet riesce a far assopire anche il più sveglio degli spettatori), bisogna sperare che il futuro della maison di proprietà dei fratelli Wertheimer risieda finalmente in abiti portabili, capaci di rispondere allo zeitgeist contemporaneo. Ma soprattutto, desiderabili. Perché è proprio quel desiderio — culturale prima che commerciale — a mancare oggi.
Quando Virginie Viard ha preso il posto di Karl Lagerfeld alla direzione creativa, i social hanno iniziato a chiamare Chanel Zara per ricchi. Forse è stata quella masnada di jeans e canottierine a diluire l’allure parigina ultra chic con qualcosa di molto più commerciale e raggiungibile.
E oggi, la nuova arrivata Chanel 25 sembra, oltre che esageratemente sportiva e poco raffinata rispetto alle altre, una borsa pensata per acquirenti giovani e ambiziosi, gli stessi per cui erano stati pensati jeans e canottierine; gli stessi che ha però cercato di respingere negli ultimi tempi con l’aumento dei prezzi.
Forse il primo passo da compiere con Blazy sarà chiarire se Chanel vuole essere un brand sportivo e funzionale come Zara oppure un brand elettivo e desiderabile come Hermès. Conoscendo l’estetica e l’approccio di Blazy sarà la seconda, ma bisognerà capire anche come giustificare quegli aumenti di prezzo costanti, spesso arbitrari, che avvengono due volte l’anno.
Crederemo ancora alla storia degli 80 passaggi necessari per produrre una borsa quando una Kelly di Hermès, realizzata a mano da un solo artigiano, costa 1000 euro in produzione? Crederemo davvero all’armonizzazione dei prezzi tra Europa, Asia e Stati Uniti, quando le cifre finali restano sempre diverse tra loro?
È proprio qui che risiede la vera abilità — o la grande illusione, a seconda di come la si guarda — dell’industria del lusso: convincere il cliente che stia pagando per l’oggetto, quando in realtà paga per il marchio. Per un’idea, più che per una materia.
Come hanno riportato Business of Fashion e McKinsey a inizio anno, oltre l’80% della crescita dell’industria del lusso negli ultimi cinque anni è dipesa dagli aumenti di prezzo. Una strategia ribattezzata "greedflation" — inflazione da avidità. E a giudicare dai numeri, almeno per ora, ha funzionato.
Ma per quanto ancora?
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