#47: Louis Vuitton si è perso in Texas
Il paradosso di chi cerca artigiani a 15 euro all'ora per realizzare prodotti di lusso.
Sei anni fa, in Texas, Bernard Arnault — CEO di LVMH — e l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump tagliavano il nastro blu per inaugurare una nuova fabbrica destinata alla produzione delle iconiche borse Louis Vuitton. Oggi, però, scottanti rivelazioni
sembrano incrinare l’immagine di quel progetto.
Era il 17 ottobre 2019 quando, tra flash e dichiarazioni trionfali, l’evento accendeva i riflettori su un nuovo stabilimento produttivo situato in un ranch di circa 100 ettari alle porte di Alvarado.
I due tycoon, in perfetta sintonia, avevano celebrato l’incontro tra il savoir-faire francese e l’orgoglio manifatturiero americano. Ma sono bastati pochi anni — e un’approfondita inchiesta dell’agenzia Reuters — per rivelare che quella promessa non è stata mantenuta. O almeno, non del tutto.
Il primo obiettivo dichiarato di Louis Vuitton, infatti, era quello di “impegnarsi nella formazione di professionisti della supply chain della pelletteria”. In poche parole, trasferire competenze e tecniche oltreoceano per formare un team di artigiani eccellenti ed efficienti. L’idea era che le stesse lavorazioni, frutto della conoscenza francese, potessero essere adottate e riprodotte fedelmente anche in Texas. Un compito ambizioso — ma non impossibile — considerando che lo stabilimento già attivo in California era riuscito nell’intento.
Fin da subito, trovare manodopera qualificata in Texas si è rivelato tutt’altro che semplice. Così, Louis Vuitton ha deciso di accettare il compromesso e aprire posizioni anche — e soprattutto — a candidati senza esperienza, offrendo impieghi a personale non specializzato, da formare direttamente in fabbrica.
Ma è possibile realizzare prodotti di lusso senza alcuna esperienza pregressa?
Sembra paradossale che borse di alta gamma come le pochette Félicie e le borse Métis — vendute a un prezzo compreso tra i 1.500 e i 2.500 dollari — possano essere assemblate da mani inesperte. Eppure, secondo quanto riportato da Reuters, diversi ex dipendenti raccontano di essere stati assunti senza una reale prospettiva di crescita, spesso impiegati in mansioni ripetitive e privi degli strumenti necessari per raggiungere quell’eccellenza artigianale che era stata promessa in origine.
Fonti dichiarano che:
Ci sono voluti anni per iniziare a realizzare le semplici tasche della borsa Neverfull.
Ma non era forse l’artigianato la massima espressione di creatività, unicità e maestria?
A quanto pare, nello stabilimento texano, gli errori erano — e sono tuttora —all’ordine del giorno. Secondo un ex dipendente, il processo di taglio, preparazione e assemblaggio avrebbe causato lo spreco di circa il 40% delle pelli. Un dato allarmante, che rivela quanto sia stato difficile assimilare efficacemente il metodo di lavoro francese. Basti pensare che, nel settore della pelletteria, i tassi di scarto si aggirano solitamente intorno al 20%.
A questo spreco eccessivo di materie prime si aggiungono le testimonianze di quattro ex dipendenti dello stabilimento, che descrivono un ambiente di lavoro ad alta pressione. Per aumentare i volumi produttivi, i supervisori avrebbero sistematicamente ignorato — e talvolta persino incoraggiato — pratiche volte a mascherare i difetti, fondendo ad esempio il materiale per nascondere buchi o altre imperfezioni nelle cuciture.
Altre due persone vicine alla catena di approvvigionamento dell’azienda hanno inoltre rivelato che:
Le borse ritenute inadatte alla vendita, per via della scarsa qualità, venivano triturate in loco e poi trasportate su camion per l'incenerimento.
Secondo un ex supervisore di produzione presente regolarmente nello stabilimento, però:
Louis Vuitton utilizzava principalmente lo stabilimento texano per i modelli di borse meno sofisticati, producendo altrove i suoi prodotti più costosi.
La risposta di Ludovic Pauchard, direttore industriale di Louis Vuitton, non si è fatta attendere.
L'azienda stava solo dimostrando "pazienza" nei confronti di "una fabbrica giovane.
Una dichiarazione che sembra più costruita per dipingere un’immagine tollerante e comprensiva del conglomerato del lusso — notoriamente spietato quando si tratta di affari e profitti — che per ammettere la difficoltà concreta nel formare personale all’altezza.
Pauchard ha poi aggiunto:
Ogni borsa che esce da qui deve essere una borsa Louis Vuitton, ci assicuriamo che soddisfi esattamente la stessa qualità. Non sono a conoscenza di alcun tipo di problema che suggerisca che la qualità proveniente dal Texas sia diversa da quella proveniente dall'Europa.
Eppure, la carenza di manodopera qualificata è, in larga parte, il risultato delle stesse scelte aziendali. Dai vertici di Louis Vuitton è arrivata una parziale ammissione:
L'avvio è stato più difficile di quanto pensassimo, è vero.
Ma la domanda sorge spontanea:
Come si può pensare di attrarre veri artigiani, altamente qualificati, offrendo loro appena 17 dollari l’ora?
Per intenderci, si parla di circa 15 euro l’ora. Ma ci sono due fattori fondamentali da considerare:
il lavoro richiede responsabilità, massima attenzione ai dettagli e precisione
il salario è piuttosto basso, soprattutto se rapportato al costo della vita negli States
Basta dare un’occhiata ai principali siti di ricerca lavoro, come Indeed, per rendersene conto: non è difficile trovare offerte da commessi nei supermercati che promettono la stessa paga, ma con meno responsabilità e orari più flessibili.
I lavoratori dello stabilimento texano, impiegati nelle mansioni di taglio e assemblaggio, inizialmente percepivano una paga di appena 13 dollari all’ora. Una cifra che, inevitabilmente, ha attratto una forza lavoro composta in gran parte da migranti, spesso privi di una formazione specifica e poco familiari con gli elevati standard richiesti da un marchio del lusso.
Secondo quanto riportato da Reuters, una persona che ha lavorato nello stabilimento fino al 2023 ha raccontato di aver adottato scorciatoie, come l’uso di una spilla rovente per "fondere" tela e pelle, nascondendo così le imperfezioni su un modello particolarmente difficile: la Vendôme Opera Bag.
E così, molti dipendenti dello stabilimento texano hanno scelto di cambiare lavoro o di abbandonare il posto, scoraggiati dai rigorosi standard di qualità richiesti.
In Francia, i nuovi assunti ricevono solo poche settimane di formazione, con il grosso dell’apprendimento che avviene direttamente in produzione sotto la guida di artigiani esperti. In Texas, invece, le risorse umane sembrano non riuscire a reggere il peso delle aspettative e dei ritmi di apprendimento richiesti, preferendo spesso migrare verso settori meno esigenti, come quello della logistica.
Damien Verbrigghe, direzione della produzione internazionale, ha affermato che la formazione in Texas è:
esattamente lo stesso programma che abbiamo in tutte le nostre officine, ovvero sei settimane sulla linea di formazione, dove i nuovi artigiani non fanno altro che apprendere le operazioni e le competenze di base prima di passare alla formazione sulla catena di montaggio.
Pur prendendo atto delle argomentazioni fornite dal più grande polo del lusso al mondo, una domanda rimane irrisolta:
Perché un conglomerato che controlla quasi due terzi del mercato globale della moda e del lusso non è in grado di offrire salari più adeguati, in linea con il valore, l’esclusività e il prestigio dei suoi brand e dei suoi prodotti?
Si parla, del resto, di un conglomerato che nel 2024 ha fatturato 84,7 miliardi di euro, guidato da un fondatore e CEO con un patrimonio personale di circa 135 miliardi di euro — il quinto uomo più ricco del mondo, secondo Forbes (dati aggiornati al 22 novembre 2024).
Chi più di LVMH, dunque, dovrebbe dare il buon esempio, incarnando l’eccellenza in ogni suo aspetto, compreso il trattamento della manodopera? Cos’è davvero il lusso esclusivo, se non c’è artigianato qualificato dietro? Come si può apprezzare un prodotto di alta gamma, consapevoli che è stato realizzato da un operaio non specializzato e mal remunerato? In questo scenario, manca tutto: il valore, la qualità, e soprattutto l’autenticità che dovrebbero essere la base stessa di un marchio simbolo di prestigio.
Ma come ho detto in questo video recente, i consumatori non vivono più in una bolla distaccata dalla realtà, dove accettano passivamente tutto ciò che vedono e ascoltano. Oggi sono istruiti, educati, interessati, informati, curiosi e per questo sempre più esigenti. Assegnano un valore diverso alle cose, specialmente ora che vivono in un mondo privo di certezze, che si sgretola giorno dopo giorno sotto i colpi di crisi globali e inflazioni galoppanti.
Cosa ci si aspetta da LVMH in Texas e nel mondo?
Ci si aspetta che offra salari non solo “equi”, ma proporzionati alla responsabilità e al valore dei prodotti che vengono realizzati. Che investa in programmi di formazione più lunghi e organizzati, soprattutto in quei territori dove mancano scuole o infrastrutture capaci di tramandare l’ARTE del fatto a mano. Che si impegni a ridurre gli sprechi di materiali pregiati, non solo per una questione economica, ma anche per una responsabilità etica, implementando pratiche concrete di recupero, riciclo e riuso.
Che si comporti, insomma, come un leader autentico: capace di unire eccellenza, innovazione e rispetto per il lavoro umano — non solo a parole, ma nei fatti.
Purtroppo il quadro che Reuters sta dipingendo è ben diverso:
Secondo tre ex dipendenti di Louis Vuitton e una fonte senior del settore, lo stabilimento texano si è costantemente classificato tra i peggiori del gruppo a livello globale, con performance “significativamente” inferiori rispetto agli altri siti produttivi. Le classifiche interne, condivise anche con il personale, non lasciano spazio a interpretazioni.
Carenza di operai specializzati nella lavorazione della pelle, contratti precari, formazione ridotta all’osso e turni di lavoro intensi.
Invece di riconoscere e affrontare la situazione, il gruppo ha scelto di spingere ancora sull’acceleratore della produzione, arrivando a invitare i dipendenti dello stabilimento californiano a trasferirsi in Texas. Una proposta che, prevedibilmente, è stata accolta con scarso entusiasmo. Pare però che durante un’assemblea pubblica lo scorso autunno, ai lavoratori di uno dei due siti produttivi in California è stato comunicato che l’azienda avrebbe chiuso nel 2028 e che avrebbero potuto trasferirsi in Texas o dimettersi. Pauchard, a tal proposito, ha affermato che Louis Vuitton intendeva snellire le sue attività in California e trasferire più artigiani qualificati in Texas, con un successo finora limitato.
È chiaro dunque che ignorare i problemi strutturali, perseguire volumi sempre maggiori senza la dovuta attenzione alla qualità e alla valorizzazione del capitale umano minacci direttamente gli standard qualitativi del marchio e, di conseguenza, la sua immagine.
E a proposito di questo, c’è un elemento non così scontato da considerare:
Chi vorrebbe una borsa LV sapendo che è stata realizzata in America?
Tra i valori, materiali e immateriali, che hanno reso riconoscibile il brand fondato nel 1854, c’è il sogno francese: un intreccio di eleganza, raffinatezza sussurrata, cinema d’antan, amour fou e romanticismo. Un immaginario che nessun altro Paese potrà mai replicare nello stesso modo. Ed è proprio per questo che si parla di codici identitari: come quelli impressi sulla nostra carta d’identità, sono unici, esclusivamente nostri e non possono appartenere a nessun altro.
Quando un cliente sceglie di acquistare una borsa Louis Vuitton, non sta semplicemente comprando un accessorio di lusso: sta scegliendo di racchiudere in sé tutti quei valori — e molti di più — che il marchio rappresenta.
Louis Vuitton ha scelto di produrre negli Stati Uniti principalmente per ragioni strategiche: espandere la propria presenza commerciale nel mercato americano, ma soprattutto, evitare i dazi imposti da Trump sui beni europei. Aprire una sede produttiva in Texas significava guadagnare tempo, favori politici e, non meno importanti, notevoli agevolazioni fiscali.
E infatti Johnson County, dove sorge la fabbrica, ha concesso al colosso del lusso uno sconto del 75% sulle tasse di proprietà per un decennio, promettendo un risparmio di quasi 30 milioni di dollari. In cambio, LVMH aveva promesso fino a 1.000 posti di lavoro entro cinque anni. Ma ora i dipendenti sono meno di 300.
Forse la scelta di rafforzare la produzione negli Stati Uniti per aggirare le tariffe doganali è stata avventata?
Da un lato, il Made in France — raccontato sul sito di Louis Vuitton come un certificato di garanzia, frutto del lavoro delle petites mains (piccole mani) negli atelier francesi, spagnoli o italiani fin dalla metà dell’Ottocento — rischia di essere ingiustamente macchiato. Dall’altro, il Made in USA mostra inevitabilmente le sue lacune: processi industrializzati, un approccio più meccanico e standardizzato, lontano da quella cura umana che ha sempre distinto la tradizione artigianale europea.
L’affermazione di Bernard Arnault, pronunciata il giorno dell’inaugurazione del Louis Vuitton Rochambeau Ranch, potrebbe oggi diventare una domanda:
2019: Il lusso si fa anche in America.
2025: Il lusso si fa ancora in America?
A voi l’ardua sentenza.
Di certo, rimane una certa perplessità di fronte ai tanti passi falsi che il mondo del lusso sta compiendo (vedi aumento prezzi), nonostante possa contare su team di esperti e sui migliori profili ai vertici delle aziende.
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XXX