#46: Non è colpa della Cina
Se l'eccellenza del Made in Italy viene messa in discussione, forse è il momento di fermarci e riflettere.
Quando la scorsa settimana ho varcato la soglia di una scuola superiore dell’artigianato, avevo un obiettivo ben preciso: raccontare ai ragazzi lo stato di salute del Made in Italy e riflettere con loro su quale potrebbe – o dovrebbe – essere il loro ruolo nel futuro di questo sistema.
I ragazzi di 15, 16 e 17 anni sono ancora acerbi, ma proprio per questo dotati di un’istintiva propensione a credere nei sogni. L’aura magica che avvolge il mondo – spesso idealizzato – della moda si affievolisce man mano che ci si avvicina. E quasi svanisce del tutto nel momento in cui ci si entra davvero.
Essere sinceri è difficile. A volte anche scomodo. Ma oggi è necessario. Dopo anni di bieca indifferenza, di silenzi e retorica, è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà. E di trovare soluzioni concrete, capaci di ricostituire e rimettere in forze ciò che resta del Made in Italy. Che non è solo un’etichetta o una promessa pubblicitaria: è la nostra storia, è tutto ciò che siamo.
Cosa non stiamo dicendo sul Made in Italy:
Innanzitutto, occorre partire da una definizione chiara: il Made in Italy non è soltanto un marchio d’origine, ma è un sigillo identitario, un concentrato simbolico e culturale che racchiude il valore di una lunga tradizione manifatturiera.
La dicitura non si limita solo a indicare dove è stato prodotto un oggetto — in Italia e non, ad esempio, in Vietnam — ma ne amplifica automaticamente il significato. Lo carica di aspettative, immaginario, eccellenza. Quante volte ci è capitato di cogliere, negli occhi di uno straniero, quel misto di stupore e desiderio davanti a un prodotto Made in Italy?
È come se, in quell’etichetta, ci fosse molto più di una provenienza: un’intera cultura del fare, un’eredità tramandata a mano libera, una conoscenza affinata nel tempo, la promessa di qualcosa che durerà nel tempo.
Made in Italy vuol dire qualità, artigianalità, attenzione al dettaglio. Vuol dire saper fare, ma anche saper raccontare. È un’etichetta che non si limita a distinguere, ma che promette. E quella promessa, oggi più che mai, dev’essere mantenuta.
È questo che intuisce Giovanni Battista Giorgini, visionario imprenditore toscano, già nei primi anni Cinquanta, quando inizia a tessere una rete di relazioni internazionali per portare l’artigianato italiano sotto i riflettori del mondo.
Nel suo fitto dialogo con il mercato americano — maturato seguendo l’azienda di famiglia nel settore del marmo — Giorgini coglie una fascinazione crescente per capi abbigliamento, calzature su misura e oggetti di lusso italiani. A conquistarli non è solo lo stile, ma il fatto che non siano prodotti in serie come accade negli Stati Uniti, bensì frutto di un saper fare artigianale, irripetibile e unico.
Unicità che deriva da ciò che solo l’Italia può offrire: la lavorazione manuale tramandata di generazione in generazione, i tessuti dei distretti lombardi, le pelli pregiate delle concerie toscane, le prime sfilate nella cornice sontuosa di Palazzo Pitti. E poi il cinema di Sophia Loren e Gina Lollobrigida, la dolce vita di Marcello Mastroianni, il sogno italiano raccontato da Federico Fellini.
Non si può poi dimenticare un elemento immateriale, quasi invisibile, ma potentissimo: ciò che oggi viene definito Renaissance effect. Nascere e vivere in un museo a cielo aperto come l’Italia affina lo sguardo, allena al bello, sviluppa un senso estetico profondo ed esigente. Qualcosa che qui diamo per scontato, ma che altrove non è affatto la norma.
Il bagalio del Made in Italy è talmente ricco e denso che, negli anni Settanta e Ottanta — quando la moda italiana cominciava ad essere forgiata da marchi come Missoni, Krizia, Versace e Armani — diventa uno status symbol internazionale: sinonimo di eleganza, qualità, desiderabilità.
Ma gli anni Novanta tracciano nuovi percorsi, spesso complessi e pieni di insidie. La globalizzazione inizia a ridisegnare gli equilibri del mercato: molte aziende scelgono di delocalizzare la produzione per ridurre i costi, inseguendo logiche di profitto immediato.
Il Made in Italy, allora, si trova davanti a una sfida cruciale: difendere la propria autenticità e i suoi valori fondanti, pur cercando di evolversi in un contesto sempre più competitivo e standardizzato.
Peccato che, proprio in quegli anni, molte aziende italiane abbiano scelto di aprire stabilimenti in Paesi a basso costo di manodopera o di esternalizzare alcune fasi della produzione oltre i confini nazionali. Dopotutto, chi non vorrebbe abbattere i costi? È una tentazione forte, soprattutto in assenza di regole o vincoli che lo impediscano.
Ma a forza di inseguire il risparmio, si rischia di perdere qualcosa di ben più prezioso: l’identità, la coerenza, il valore profondo del Made in Italy.
Alcune realtà lo hanno capito, e da una decina d’anni hanno avviato politiche di re-shoring — ovvero di rilocalizzazione in Italia dopo anni di produzione all’estero. Le motivazioni sono diverse: da un lato gli incentivi statali (pochi, ahimè) per riportare la manifattura nel Paese, dall’altro l’aumento dei costi in quei mercati che un tempo sembravano convenienti, come la Cina, oggi soggetti a nuove regolamentazioni (che definiscono salari minimi e normative ambientali più stringenti).
Altre realtà, invece, continuano a frammentare la filiera produttiva, rinunciando a un un processo lineare e integrato in cui ogni fase — dall’ideazione all’approvvigionamento delle materie prime, dal taglio al cucito, fino all’assemblaggio e al confezionamento del prodotto — sia realmente controllata e quindi tracciabile.
Optando per una filiera questo tipo, il consumatore finale ha accesso limitato a molte informazioni fondamentali sul prodotto — che si tratti di una scarpa o di una borsa. E se fino a qualche anno fa nessuno sembrava porsi troppe domande, oggi le cose sono cambiate. L’accesso rapido e diffuso ai social media e all’informazione ha reso i consumatori sempre più consapevoli, curiosi ed esigenti. Sono finiti i tempi in cui accettavano passivamente i messaggi dei brand: oggi vogliono trasparenza, coerenza e verità.
Un altro aspetto cruciale è che, se da un lato l’accesso ai contenuti online ha reso l’informazione più democratica, dall’altro ha contribuito a generare disorientamento. Viviamo in un’epoca di sovrapproduzione — non solo nella moda, ma in ogni ambito, informazione inclusa.
Un eccesso che finisce per confondere anche chi ha un potere d’acquisto minimo, sommerso da stimoli, opinioni e offerte spesso contraddittorie.
Succede, allora, che — come è accaduto questa settimana — una raffica di video virali in cui rivenditori cinesi mostrano al mondo la loro forza produttiva, riesca a scatenare il caos attorno alle eccellenze europee e, quindi, anche al Made in Italy. Il motivo è semplice: dove mancano le informazioni, le certezze svaniscono.
Sarebbe dunque il momento che le grandi maison del lusso abbattessero i muri dorati che hanno costruito attorno ai loro atelier, sollevassero le tende che ne oscurano il lavoro, e iniziassero a mostrare i dietro le quinte, a spiegare le lavorazioni passo dopo passo, a raccontare storie di valore. Eppure, i conglomerati che guidano questi brand continuano imperterriti sulla loro strada, miopi e disinteressati. Continuano a credere che la loro forza risieda nel passato glorioso e nel prestigio dei loro nomi, ignorando il bisogno di trasparenza e connessione con il presente.
Domani potrebbe chiamarsi Turchia e non Cina, ma il problema rimarrà lo stesso: un atteggiamento anacronistico che evidenzia ancora una volta lo scollamento del lusso dalla realtà contemporanea.
Il problema, forse, non è tanto dei video cinesi — che certo minacciano il nostro know-how — quanto nell’incapacità di noi europei di difendere ciò che di più prezioso abbiamo. Perché se avessimo:
contenuto i prezzi e mantenuto la qualità
fidelizzato i clienti invece di allontanarli per servire solo l’1% della popolazione mondiale (i ricchi)
controllato la filiera, garantendo trasparenza e tracciabilità
regolamentato la supply chain in relazione a lavoratori e ambiente
raccontato le nostre eccellenze artigianali
difeso manifatture e fabbriche: spina dorsale del nostro sistema (oltre 2.000 aziende di abbigliamento, tessile e pelletteria hanno chiuso in Italia nel 2024)
protetto artigiani e piccole e medie imprese
assecondato la filiera corta, non delocalizzando numerosi step della produzione all’estero
favorito il ricambio generazionale, investendo nel know-how e nelle scuole di eccellenza artigiana
reagito seriamente dopo la scoperta di subappalti opachi, scandali e scioperi nei distretti produttivi per diritti basilari
aggiornato la normativa del 1992 che definisce un prodotto “Made in Italy” qualsiasi prodotto fatto in più paesi ma che presenti una MINIMA lavorazione sostanziale in Italia…lasciando spazio a interpretazioni personale
…forse ora ci godremmo un futuro più solido e sicuro, ridendo a crepapelle davanti alla possibilità che qualche video fuorviante su TikTok possa minacciare un certificato d’eccellenza come il Made in Italy. Per chi non l’avesse ancora capito, c’è disperato bisogno di verità e trasparenza, non di contenuti Made in China.
News of the Week
A proposito di eccellenze italiane: brilla una delle stelle dell’artigianato
Armani celebra il 20° anniversario della collezione di Alta Moda con una mostra straordinaria: ecco dove
L'OFFICIEL inaugura il primo Coffee Spot in Asia: leggi di più
Buone e cattive notizie per Valentino: qui i numeri
Giri di poltrone of the Week
Jonathan Anderson è il nuovo direttore creativo di Dior Homme
Jean Paul Gaultier ha un nuovo direttore creativo: ne avevo scritto durante la NYFW
XXX