#45: Op Op, Gadget
Dal cadeau di arrivederci al Fuorisalone: breve storia del nostro bisogno di portarci sempre qualcosa a casa.
Ieri ho organizzato una piccola festa di compleanno per mio figlio. Mentre pensavo a cosa comprare e preparare, mi sono accorta che alla voce gadget — o, più comunemente, regalini per gli amici — c’era uno spazio vuoto. Se pensate che sia un dettaglio trascurabile, vi sbagliate di grosso. Nella setta delle mamme pancine, il cadeau di arrivederci è fondamentale perché ribadisce all’invitato la nostra gratitudine per essersi presentato.
Non basta, dunque, prenotare uno spazio privato, ordinare una torta gustosa, preparare cibo dolce e salato, e ideare attività e laboratori creativi. Per concludere una festa degna di questo nome, gli invitati devono andarsene con un regalo. Piccolo o grande che sia.
Ora, capirete che non è necessario scrivere un trattato sull’argomento, né fare uno studio approfondito sull’emulazione psicologica che porta la sottoscritta a proporre —controvoglia — questi dannati pensierini, destinati a perdersi negli anfratti delle borse o nei portaoggetti delle auto, solo per non passare da maleducata agli occhi della massa. Ma mentre preparavo tutto, mi è venuta in mente una connessione interessante con il mondo della moda e del design.
Può sembrare cervellotico quello che sto per dirvi, ma cercate di seguirmi col ragionamento. E poi ditemi cosa ne pensate.
I giorni di festa a casa mia — compleanno incluso — coincidono con quelli della Design Week. Milano, in queste ore, è un’installazione a cielo aperto: un museo temporaneo di oggetti e allestimenti di grande fascino, spesso di pregevole fattura, capaci di lasciare davvero senza fiato.
Eppure, ci siamo imbattuti tutti — chi più, chi meno — in foto e video che mostrano code chilometriche davanti alle porte dei palazzi più lussuosi della capitale meneghina. Se non sapessimo che dal 7 al 13 aprile c’è questo evento in agenda, potremmo facilmente pensare che a ogni numero civico stiano facendo una svendita in stile Black Friday.
Serpentoni umani, educati ma famelici, cingono le mura del centro città senza mai dissolversi veramente. E per che cosa? Per una shopper brandizzata, un ventaglio in edizione limitata o una bibita con l’etichetta personalizzata. Giovani e giovanissimi si mescolano nella folla, armati di pazienza e spirito di conquista (più che di sacrificio). Poco importa se la fila dura quattro o cinque ore, e ancora meno se, una volta dentro, l’esperienza si esaurisce in pochi minuti: il gadget è l’obiettivo. Il premio. La medaglia al valore. D’altronde, quelle persone hanno imparato a stare in fila pur di ottenere qualcosa. Meritano un riconoscimento.
Al di là del regalo, ciò che davvero lascia perplessi è la crescente noncuranza verso l’evento in sé. Se l’attenzione è tutta rivolta agli oggetti — che siano calendari, borse in tela o magazine — si finisce per ridurre l’esperienza a una mera caccia al “premio”, piuttosto che valorizzare la creatività, l’innovazione e la cultura che questi eventi dovrebbero incarnare.
La Design Week, che un tempo rappresentava un punto di riferimento fondamentale per l’eccellenza del design, sembra ora spostare il focus dal pensiero creativo alla ricerca di oggetti “gratuiti” o a basso costo, un po’ come accade durante la Fashion Week, dove l’attesa e la fila diventano il vero evento per chiare questioni di marketing.
Ed è legittimo chiedere, e chiedersi, se il regalo finale riesca davvero a valorizzare l’esperienza stessa, che si tratti di compleanni fanciulleschi o di eventi mondani.
Sigillo di esperienza
Che sia alla fine di una festa per bambini o di un’installazione al Fuorisalone, il gadget rappresenta una sorta di sigillo dell’esperienza. È un souvenir simbolico che dice:
“Tu c’eri. Ecco la prova.”
Nella festa infantile serve a dire “grazie per essere venuto”, nella Design Week diventa “grazie per aver fatto parte del nostro storytelling”.
Ricompensa
I regalini ai bambini e i gadget per adulti sono in fondo una forma di ricompensa.
Nel primo caso per la socialità (sei venuto al mio compleanno), nel secondo per l’attenzione, il tempo, la fatica (hai fatto la fila, hai ascoltato il brand, hai postato la foto). È una logica premiale che parte da piccoli e ci accompagna tutta la vita.
Gratis è meglio
Dietro al gadget c’è l’euforia dell’avere senza pagare. Anche se è qualcosa di minuscolo o inutile, il fatto che sia gratuito gli dà una carica emotiva enorme. Come il regalino ai bambini, anche il gadget al Fuorisalone non serve veramente… ma lo vogliamo lo stesso. In fondo, la nostra vita potrebbe davvero cambiare con una tote bag in tela con la scritta LOEWE! (Sono ironica, of course)
Regressione collettiva
Andare a caccia di gadget ci fa tornare un po’ bambini. È un gesto che appaga la parte più infantile di noi: il desiderio di attenzione, il senso di appartenenza a un gruppo, il bisogno di portare a casa qualcosa. Che sia una bolletta della luce finta brandizzata o una matita con il logo di una sedia da 20.000 euro.
Ed ecco che…
in fondo, siamo animali sociali che si aspettano sempre qualcosa che possa elevare la nostra esistenza. Concediamo agli oggetti il potere di influenzare il nostro stato d’animo, di renderci felici o, al contrario, tristi. Ma soprattutto, dedichiamo il nostro prezioso tempo alle cose.
Gli oggetti diventano estensioni di noi stessi, riflessi tangibili dei nostri desideri, delle nostre aspettative, e talvolta delle nostre insicurezze. In un mondo che ci invita a collezionare esperienze, la tentazione di affidarci a ciò che possiamo toccare, accumulare e mostrare è irresistibile. E così, tra un gadget e l’altro, rischiamo di dimenticare che la vera ricchezza non sta nell’oggetto in sé, ma nell’esperienza che accompagna il nostro incontro con esso.
Questi sono solo pochi, pochissimi esempi di un approccio deviante, che riduce l’autenticità dell’esperienza a un semplice scambio commerciale.
Su Vinted i pezzi di design originariamente distribuiti come gadget gratuiti finiscono per essere rivenduti a cifre che superano i 300 euro. Un segno di come l’oggetto, una volta percepito come decorativo, venga riconsiderato come un valore di mercato, svuotando così l’esperienza originale del suo significato più profondo. In fondo, se l’unico obiettivo è il possesso, la cultura perde il suo senso, e l’evento diventa solo una merce da scambiare.
Ci sono addirittura persone che vendono shopper di carta a 20 euro:
Non mancano poi le tote bag personalizzate che da 0 arrivano a costare 10 euro:
Oppure 30 euro come questa di Armani:
Ma il massimo picco viene raggiunto da chi vende opuscoli GRATUITI, perché si sa “la cultura pesa”:
Mi domando allora:
Dove stiamo finendo? Quale direzione stiamo prendendo?
È così sbagliato pensare a un parallelismo tra bambini e adulti? I primi si aspettano la bustina con i coriandoli e le bolle di sapone alla fine della festa; i secondi, invece, le penne firmate e le borse di stoffa.
Prima di salutarvi con la mia risposta (e sono davvero curiosa di sapere cosa ne pensate voi), prendo i pop corn al cioccolato di Loro Piana ricevuti gratuitamente, ma rivenduti a 15 euro, e mi metto comoda (*joking*).
Io penso che in fondo, non siamo tanto diversi. Siamo semplicemente cresciuti, sì, ma il nostro bisogno di uscire da un’esperienza con un oggetto da mostrare è rimasto intatto—fosse anche solo per una foto su Instagram.
Ecco, forse è questo il punto: il gadget, nel 2025, è la prova tangibile che c’eravamo. Che abbiamo partecipato, che eravamo nel posto giusto al momento giusto. Un biglietto da visita emozionale. Un selfie materializzato.
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