#03: Re Giorgio vive in un regno che non esiste più
I dissing al tempo della Milano Fashion Week
“Sono stufo di vedere una matta che gira in mutande in città […] continuiamo ad accettare tutte”.
Con queste parole, Giorgio Armani ha concluso la Milano Fashion Week come solo lui sa fare, cioè sollevando polemiche non necessarie.
La velata frecciatina rivolta - pare - alla fidanzata di Kanye West, Bianca Censori, inevitabilmente punge un più vasto pubblico di donne. Se è vero che la coppia americana potrebbe non risultare simpatica (a chi, come me, non ama il fumo ma solo l’arrosto, ad esempio), è altresì vero che la moda ha sempre abbracciato ogni forma di espressione stilistica. Per questo motivo, il Re della moda non dovrebbe essere esente dall’osservare il libero arbitrio vestimentario, se così si può definire.
Se volessimo affrontare la questione sotto il profilo dell’eleganza, potremmo anche concordare con lui sul fatto che il buon gusto - inteso come raffinatezza - sembri essere sempre più raro nel mondo. Tuttavia, questo non è il punto. Da quando il concetto di buon gusto, peraltro soggettivo, è diventato un parametro imprescindibile per definire la moda? Da quando una collezione viene giudicata in base alla sua eleganza? Dovremmo allora cancellare anni, anzi secoli, di audaci e ribelli sperimentazioni solo per privilegiare e celebrare quelle sognanti ed eleganti, ma sarebbe una selezione riduttiva e limitante.
Sono state - anche - queste audaci creazioni a plasmare la moda contemporanea. Sono stati gli eccessi insetticidi di Thierry Mugler, la carnalità di Alexander McQueen, le stratificazioni di John Galliano, gli strappi di Vivienne Westwood, le cristallizzazioni di Gareth Pugh, il brutalismo di Issey Miyake, gli azzeramenti cromatici di Martin Margiela e le trasformazioni di Hussein Chalayan a farci arrivare dove siamo oggi. E in un equilibrio perfetto, sono stati i rigonfiamenti di Cristóbal Balenciaga, i drappeggi di Madeleine Vionnet e gli ammorbidimenti dello stesso Armani a fare da contraltare.
Il Re della moda, icona senza tempo, sembra trascurare tutto questo, forse esausto di un’industria che non lo rispecchia più. In una frenetica ricerca di validazione, sembra essersi lanciato in una battaglia già persa in partenza. La moda, infatti, con la sua natura intrinsecamente libera e mutevole, non può essere domata o classificata in un casellario di regole imposte da un singolo individuo, neanche se questo individuo è un gigante come Armani.
Il suo sdegno per le eccentricità ostentate del ventunesimo secolo trasuda una nostalgia creativa, seppur elegantemente espressa, che è fuori dal radar dei clienti - vip e non - che acquistano e indossano la moda in tempi di fashion week. E c’è da dire che quelle donne raffinate e sofisticate che accoglievano lo stile misurato di Armani negli anni Settanta sono sempre più rare da trovare oggi.
Eppure, la sua offerta non cambierà (per fortuna) e sarà sempre per un pubblico squisito ed elegante, capace di apprezzare i valori e gli sforzi che si celano dietro al suo successo. A differenza di alcuni suoi colleghi, come Miuccia Prada, Giorgio Armani proviene da una famiglia economicamente modesta, che non gli ha consegnato il mestiere in mano. Ha iniziato la sua carriera dal basso, lavorando prima come consulente per gli acquisti in Rinascente, poi come stilista dal collega Nino Cerruti. Solo nel 1975, incoraggiato dal compagno e socio in affari Sergio Galeotti, ha presentato la sua prima collezione individuale, rompendo radicalmente gli schemi preesistenti, ma sempre con eleganza.
La sua concezione di modernità, in netto contrasto con quella predominante oggi, non ha mai dovuto scomodare l’eccesso e l’oltraggio. A colpi di giacche destrutturate, abiti gessati, colori sorbetto e volumi bilanciati, ha conquistato il mondo della moda, centimetro dopo centimetro di tessuto. Sebbene fosse coetaneo di Fiorucci e Quant, preferiva un’estetica minimalista ben lontana dalla loro Pop Art chiassosa e colorata.
È quindi comprensibile la sua difficoltà nel decodificare le combinazioni sfrontate che hanno sfilato in questi giorni. Tuttavia, la risposta degli addetti ai lavori è stata chiara: continueremo ad accettare tutte, vestite molto o poco, eccentriche o meno, esagerate o contenute, in nome della libertà di essere e di esprimersi. La seduta è tolta.
Ora, sollevata da questo peso esistenziale (si scherza), passerei alla descrizione semi-seria e molto-ironica di alcuni brand che hanno sfilato a Milano nei giorni scorsi.
GUCCI: l’attesa sfilata sotto la guida di Sabato De Sarno è bella, ma ripetitiva. Il marketing team aveva ideato la campagna “GUCCI ANCORA” che campeggiava su palazzi, libri, abiti e accessori prima del debutto del direttore creativo, ma a posteriori potevano scrivere “GUCCI, ANCORA?” che è un po’ quello che alcuni presenti alla sfilata di via Cosenz hanno esclamato vedendola. De Sarno, però, è così abile nell’accostamento dei colori e così genuinamente sorridente che lo perdoniamo anche se non ci fa correre alla boutique Gucci più vicina per svaligiarla. VOTO 7
MOSCHINO: Adrian Appiolaza ha fatto boom dimostrando che è possibile combinare qualcosa anche se si accetta l’incarico di direttore creativo due mesi prima. Peccato per tutti i colleghi che non avranno più un alibi da usare quando creeranno una collezione mediocre. Dopo anni di capi stravaganti ma culturalmente insignificanti firmati da Jeremy Scott, il brand torna a rispolverare le ironiche ma profonde creazioni del fondatore. Per un attimo sembrava di essere tornati agli anni Novanta. VOTO 9
PRADA: nulla da dire su quella che forse, dopo il 2012/2013, è stata la collezione più bella di tutti i tempi. L’unione perfetta tra la Miuccia e il belga Raf Simons non poteva che sfociare in un’orgia di significati culturali, artistici, storici così profondi da farci sentire quasi in soggezione. La complessità del suo storytelling ci fa venire voglia di vedere la sfilata una seconda volta, per unire i puntini tra i fiocchi di raso e i cappelli di piume pre-Nazi, tra gli inserti di pelliccia e il nylon nero. Ecco, questa sì che è una collezione che incendia l’anima e ci fa correre nella prima boutique Prada a cercare l’estintore. VOTO 10
DIESEL: il lavoro di Glenn Martens convince Millenials e Gen Z, con buona pace del patron Renzo Rosso che sta dimostrando come essere imprenditori al giorno d’oggi (+14% di turnover). Quello che ha capito Diesel è che serve una certa dose di democratizzazione per conquistare i giovani, sia nei prezzi dei capi, sia nella possibilità di partecipare alla sfilata tramite device. Quello che non ha capito è che deve definire meglio il suo concept per evitare l’accozzaglia di colori e sovrapposizioni a tratti disturbante. VOTO 6
FENDI: l’attenzione è tutta sull’iconica Peekaboo bag, che diventa il manifesto della collezione stessa. Peccato che si debbano giudicare anche gli abiti e purtroppo c’è poco da dire. Nonostante la qualità dei materiali, l'assemblaggio di tagli e volumi diversi sembra essere un tentativo poco ispirato, privo di una coesione stilistica evidente. Siamo arrivati alla conclusione che forse il radicato sistema matriarcale alla guida di Fendi potrebbe buttare il cuore oltre l’ostacolo e provare a prendere in mano l’attività creativa anziché continuare ad assegnarla a colleghi esterni, come Kim Jones (o Karl Lagerfeld in passato). VOTO 5
CAVALLI: ho riflettuto a lungo sul motivo per cui i magazine parlassero poco del brand, poi guardando la sfilata ho capito. VOTO 5
TOD’S: nella scorsa newsletter ci chiedevamo come sarebbe stato il lavoro di Tamburini. Possiamo ora constatare che è stato certamente positivo e interessante. Ci saremmo aspettati di più? Onestamente no. Tod’s non è un brand che promette fuochi d’artificio né lascia assoluta libertà di espressione al direttore creativo di turno. La collezione è perfettamente eseguita, d’altronde lo stilista arriva da Bottega Veneta, ma non c’è nessun coup de théâtre. Peccato. VOTO 7
MAX MARA: una sfilata esguita nella zona di comfort tra un teddy coat e un cappotto sartoriale. Toni fumosi ed eleganza senza tempo. Il prossimo anno mi farò invitare alla sfilata siccome c’era talmente tanta gente che mancavamo solo io e voi. VOTO 8
BLUMARINE: Walter Chiapponi ci illumina dopo anni di buio. Riesuma l’estetica coquette e romantica che alterna trasparenze a stampe animalier, e lo fa spingendosi ai limiti della pericolosità, ma senza oltrepassarla. Un voto in più per la giacca dedicata all’amico Davide Renne che per un attimo gli fa toccare il cielo, anzi il paradiso, con un dito. VOTO 8
MARNI: Francesco Risso svolge il tema assegnato in occasione del trentesimo anniversario del brand: creare un concept chiaro e preciso. Lo fa scegliendo un set bianco e asettico che vuole azzerare qualsiasi punto di riferimento precedente. I capi hanno una silhouette talmente potente da richiamare la couture. Un voto in meno per aver dato spazio, nel pubblico, a Kanye West che non perde occasione per catalizzare l’attenzione a discapito della vera creatività che lo circonda. VOTO 7
VERSACE: una collezione che non ricorderemo. La banalità alterna pelle, tartan, trasparenze, giacche strutturate e inserti oro in linea con l’heritage del brand meduseo. Peccato che quando si pensa solo alla vendibilità non si arrivi al cuore dell’audience, nemmeno se tra le modelle c’è la dea Kate Moss. VOTO 5
DOLCE&GABBANA: immagino una conversazione tra Stefano Gabbana e Domenico Dolce che si domandano cosa faranno per la sfilata successiva. Una conversazione che dura circa trenta secondi perché dal 1985 presentano la stessa salsa ma con una pasta diversa ogni volta. State certi che troverete sempre l’uso del nero, i pizzi e i macramè, tante trasparenze romantiche e seducenti, la lingerie, il richiamo al mondo mediterraneo e qualche limone siciliano qua e là. Nel complesso, una collezione ben eseguita, nulla da dire. VOTO 8
BOTTEGA VENETA: coraggioso Matthieu Blazy che interpreta il quiet luxury (conosciuto come lusso discreto) uscendo dalle tinte neutre e sobrie tipiche di questa tendenza. Annette il rosso e l’azzurro, poi le piume e le frange, bilanciando perfettamente i volumi e rispettando l’estetica del brand veneto. Un voto in più per aver introdotto borse non intrecciate dopo tanto tempo, scegliendo quindi di intraprendere la strada meno comoda. VOTO 9
GIORGIO ARMANI: proprio quando sembrava che lo stilista ci presentasse una collezione adatta alla comunione del nipote, ecco che arrivano i pezzi forti a spazzare via qualsiasi paura. Chiffon, velluto, applicazioni e perline impreziosiscono come sempre le sue collezioni. A colpo sicuro. VOTO 8
I FATTI DELLA SETTIMANA:
La giornalista Cathy Horyn al vetriolo sulla sfilata Versace. Secondo lei è realizzata da un merchandiser che vuole vendere, e non da una stilista ispirata
Sono disponibili le prime puntate del documentario prodotto da Sky sulla storia della moda italiana: “Moda. Una rivoluzione italiana”
I COLLASSI DELLA SETTIMANA:
Fa discutere il drastico calo delle modelle “curvy” sulle passerelle della Milano Fashion Week. L’inclusività è già finita?
Quale piano per risolvere la crisi della pelletteria italiana? Lo spiega PambiancoNews qui
Grazie per essere arrivati in fondo a questa lunga newsletter. Ci sentiamo la prossima settimana con la Paris Fashion Week che sta andando in scena ora.
Buon fine settimana a tutt@ voi. Vi mando un abbraccio virtuale!